| Autunno 1942: foresta pietrificata di palazzi sventrati, ciminiere mozze e annerite, strade sconvolte, case bruciate e giardini arati dai colpi d’artiglieria, Stalingrado è un cratere che ribolle. In mezzo alle sue macerie sventola la bandiera con la croce uncinata; nove decimi della città sono in mano ai tedeschi. |
La mattina del 30 settembre 1942, parlando al Reichstag, Hitler ha dichiarato: "Noi prenderemo d'assalto Stalingrado e la conquisteremo: su questo potete contare… Quando noi abbiamo conquistato qualcosa nessuno più ci sposta"; e se ora, a metà d’ottobre, i deputati tedeschi danno un’occhiata all’atlante, come sempre mostrano fiducia nelle parole del Führer. Stalingrado ha la vaga forma di una mezzaluna con la gobba rivolta all’occidente: sul suo lato interno scorre il Volga; su quello esterno premono gli assedianti, i 320.000 uomini della 6 Armata di Paulus. Dall’alto in basso, per chi guarda la carta geografica, questa mezzaluna è divisa orizzontalmente in sei quartieri, come altrettanti spicchi di terra che si bagnano nel Volga ed hanno tutti i nomi tipici dell’era rivoluzionaria: " Fabbrica di Trattori ", " Barricate", "Ottobre Rosso ", "Dzerzhinski", "Vorosiloviski", "Kirovski". Almeno il 90% di ogni quartiere è già conquistato dai tedeschi. Ai sovietici rimane qualche angusta fetta di terreno, e non sempre perché da " Vorosiloviski" sono stati ricacciati nel fiume ed hanno dovuto attestarsi sull’isoletta di Golodny. La testa di ponte più ampia la mantengono in riva al Volga, ad "Ottobre Rosso" ed a "Dzerzhinski". E’ una lingua di terra lunga otto chilometri e profonda da 100 ad 800 metri, con una ventina di grossi isolati, tre fabbriche, il pontile centrale e la collina di Mamaj: una "stretta striscia di rovine", la definisce il quarantaduenne tenente generale Ciujkov, capo dei difensori della città e futuro maresciallo dell’URSS. E’ contro questi ultimi baluardi che fra il 16 settembre (primo giorno dell’assedio) e il 19 novembre (inizio della controffensiva sovietica) si rovesciano senza posa le ondate d’assalto della fanteria corazzata di Paulus. Complessivamente, in nove settimane di combattimenti, sono oltre 700 attacchi, alla media di 12 al giorno, e cinque grosse battaglie scatenate il 22 settembre, il 4 e il 15 ottobre, il 1° e il 12 novembre. Sotto l’urto dei carri, dell’artiglieria e dell’aviazione il fronte difensivo si spezzetta un piccole isole di resistenza limitate a una strada, a un gruppo di case, a una scuola, a un grande magazzino, all’ala di una fabbrica. L’esempio più tragico è la collina di Mamaj, il " Mamaiev Kurgan", di 102 metri, nel rione " Dzerzhinski" di fronte al pontile centrale: a sorti alterne, per tutto il tempo della lotta a Stalingrado, l’altura passa dalle mani russe a quelle tedesche. La prima battaglia in forze comincia nell’alba piovosa del 22 settembre. La 76 divisione di fanteria tedesca, appoggiata da 100 carri, avanza lungo la via Moskovskaia, che scende dolcemente dalle colline al fiume, penetra nella "balka" di Dolghi, si impadronisce della piazza IX Gennaio: il fiume è ad appena 200 metri. Altri reparti occupano le vie Kurskaia e Kievskaia, raggiungono la valletta dello Zaritza (il fiume che attraversa Stalingrado e che, un tempo, aveva imposto il nome alla città), occupano il pontile centrale e distruggono il traghetto. Ciujkov invoca soccorsi e nella notte dall’altra sponda del Volga, traghetta su zattere improvvisate una divisione di fanteria agli ordini di un ex-operaio metallurgico, Nikolai Batiuk: i rinforzi riescono a respingere le punte avanzate degli assaltatori tedeschi arrivati ad un solo isolato dal fiume. La battaglia si conclude a netto favore dei tedeschi che, al 1° ottobre, sono ormai padroni della maggior parte della Stalingrado centrale, del quartiere degli affari, dei quartieri "Barricate" e " Fabbrica di Trattori" e di una delle due stazioni ferroviarie, Stalingrado-I. L’enorme edificio è stato conteso ai tedeschi, per due settimane dai genieri del primo battaglione del reggimento Elin. Nella notte del 30 settembre i sei soli superstiti, tutti feriti e rimasti privi di munizioni, si trascinano fino al Volga, si impadroniscono di un barcone e si spingono nel fiume: per tre giorni, si lasciano trasportare dalla corrente finché vengono soccorsi dai serventi di una batteria contraerea a Kuporosnoie. Delle cinque battaglie la più aspra è quella del 14 ottobre quando, durante nove giorni, Paulus rivolge le sue forze contro i tre complessi industriali " Barricate", "Fabbrica di Trattori" ed "Ottobre Rosso" che sorgono uno accanto all’altro in riva al Volga e danno il nome ai rispettivi quartieri. Su un fronte di cinque chilometri i tedeschi impiegano tre divisioni di fanteria e due corazzate, conquistano la fabbrica dei trattori e dividono le forze di Ciujkov. L’attacco di Paulus perde mordente proprio nel momento in cui i sovietici, arretrando passo passo, sono stati risospinti a 50 metri dal fiume. Il Volga, largo in questo punto un chilometro e mezzo, è l’amico-nemico dei russi. Tutto quello che occorre al presidio di Stalingrado , dai viveri al foraggio, dalle munizioni all’acqua, ai rinforzi, deve essere trasportato da una riva all’altra. I traghetti sfidano pericoli mortali: l’avversario ha un’ottima visuale sul fiume, con mortai ed aerei dà una caccia spietata. Ma il Volga, al tempo stesso, è uno dei motivi dei successi dei difensori. L’artiglieria russa, con le sue paurose "Katiuscia", è nascosta sull’altra sponda ed annulla qualsiasi conquista nemica: "Verso la fine di ottobre – scriverà uno dei difensori di Mamaj, Viktor Nekrasov, futuro romanziere – l’altra sponda del Volga era un vero formicaio. Là erano concentrati tutti i servizi, l’artiglieria, l’aviazione ecc.. E furono loro quelli che crearono l’inferno per i tedeschi". Aggiungerà un altro scrittore russo, Simonov: " Sicuramente non avremmo potuto tenere Stalingrado se non avessimo avuto per tuttp quel tempo l’appoggio dell’artiglieria e delle 'katiuscia' sull’altra sponda". Benché la stampa angloamericana definisca Stalingrado "la Verdun dell’oriente", qui, a differenza di quanto accadde sul fronte francese nel 1916, le linee sono a brevissima distanza, sui due lati di una strada, dall’ingresso al cortile di uno stabilimento, da un piano all’altro di una casa. Ogni uomo sente l’avversario camminare, strisciare, respirare; qualche volta arriva a parlargli : "Russ, skoro bul-bul u Volga", gridano i tedeschi che presidiano il Voientorg, sull’angolo delle vie Solniescnaia e Smolenskaia, ai sovietici del bunker di fronte - "Presto farete le bolle nel Volga" . Riusciti a resistere per il primo mese di assedio in mezzo alle macerie, i russi scoprono che il loro vantaggio viene proprio dal combattimento ravvicinato, dove la terra di nessuno non supera mai il lancio di una bomba a mano: prima di tutto perché in questo genere di lotta sono più esperti, sia per l’impiego di armi bianche, sia infine per la libertà di scelta dell’ora ("la notte era il loro elemento" scriverà Ciujkov); in secondo luogo perché rende immuni, o quasi, le loro prime linee dagli attacchi aerei tedeschi. Ma è soprattutto col sistema degli edifici trasformati in capisaldi, coma la "casa di Pavlov", che i sovietici riescono sempre a contenere l’urto delle preponderanti forze nemiche. La "casa di Pavlov", prima della guerra, si chiamava "Casa della Gloria del Soldato" ed ospitava uffici governativi. E’ un palazzetto barocco, di quattro piani, che sorge sulla piazza IX Gennaio e dove, negli scantinati, sopravvive ancora una trentina di inquilini. Il sergente I.F. Pavlov, in seguito insignito del titolo di “eroe dell’Unione Sovietica”, e i fanti Alexandrov, Gluscenko e Cernologov lo occupano a metà settembre: con l’aiuto degli abitanti fortificano la costruzione, costruiscono cunicoli e camminamenti per collegarsi ad altre case-fortino, creano punti di fuoco, sbarramenti anticarro, campi minati,reticolati e postazioni per i cecchini (i tiratori scelti e solitari sono una specialità dei russi: il celebre Zaicev, da solo, uccide 242 tedeschi). La casa di Pavlov resiste per oltre 50 giorni. " Stalingrado non è più una città – annota in un diario – di giorno è una enorme nuvola di fumo accecante, una grande fornace illuminata dai riflessi delle fiamme. E quando arriva la notte i cani si tuffano nel Volga, perché le notti di Stalingrado lì terrorizzano…" Sull’altra sponda del fiume c’è Zhukov. Con la stessa freddezza con cui, l’anno prima, aveva rifiutato di impegnare la riserva siberiana finché la battaglia di Mosca non fosse stata decisa, ora a Stalingrado limita al minimo indispensabile l’invio di rinforzi: dall’inizio di settembre ai primi di novembre soltanto cinque divisioni passano il Volga, "bastanti appena a coprire le perdite" . E’ un calcolo di stratega ma l’OKW lo interpreta come la prova che i sovietici sono allo stremo e la conquista a portata di mano. In realtà, nel massimo segreto Zhukov sta preparando la controffensiva: a Povorino e a Saratov, nelle steppe della riva sinistra del Volga, va raccogliendo 27 nuove divisioni di fanteria e 17 brigate corazzate. Anche Paulus è convinto che, per i russi, non ci sia più scampo. Il generale Friedrich Wilhelm Ernst Paulus, 52 anni, ex capo di stato maggiore del feldmaresciallo von Reichenau, ritiene, per calcolo o per convinzione, che Stalingrado sia la chiave di volta dell’intero sistema difensivo sovietico. Qualunque obiezione a questa discutibile tesi la considera disfattismo e la punisce di conseguenza.
Ad ottobre il generale carrista von Wietersheim lamenta che i suoi panzer, logorati nella battaglia in città, presto non saranno più in grado di adempiere al loro scopo principale, impegnare cioè le forze corazzate nemiche in battaglie di movimento: subito von Wietersheim viene destituito e degradato a soldato semplice. Un altro carrista, il generale von Schwedler, ammonisce sul pericolo di concentrare tutte le forze corazzate in un punto morto. In altre parole, le ali del fronte sono un compasso aperto a 90 gradi, formano un angolo retto e, in fondo all’angolo, c’è Stalingrado: cosa accadrebbe, si chiede von Schwedler, se i russi attaccassero sulle ali, se richiudessero di colpo il compasso? Ma " i russi sono finiti" ha detto Hitler il 20 luglio a Halder, anche von Schwedler e destituito. Il novembre 1942 comincia col freddo, nuvole basse, brevi tormente di neve, il termometro a –20°. Il 6 compaiono sul Volga i primi ghiacci, dal 20 il fiume non sarà più navigabile e il 16 dicembre gelerà. L’8 novembre parlando a Monaco per il 19° anniversario del “putsch” della Burgerbraukeller, Hitler pronuncia le più infelici parole della sua vita politica: "Ho voluto raggiungere il Volga nella città stessa che porta il nome di Stalin", dice. "E questa città l’abbiamo conquistata ad eccezione di due o tre isolotti insignificanti…. Lascio a piccoli elementi d’assalto il compito di completare la conquista". Di lì a dieci giorni Hitler sarà smentito clamorosamente. Forse al Fuhrer è sfuggito il senso riposto di una frase che Stalin ha pronunciato il giorno prima in un radio-discorso col quale celebrava anche lui un anniversario, quello della rivoluzione sovietica. Magnificato a lungo i successi militari inglesi e americani, Stalin ha sostenuto che i tedeschi hanno fallito finora nel piano di far cadere Stalingrado e ha concluso con un accenno sibillino "Ci sarà festa anche sul nostro fronte". Ma l’11 novembre i fatti sembrano invece dare ancora ragione ad Hitler. I tedeschi lanciano su Stalingrado un attacco massiccio, con cinque divisioni appoggiate da 150 carri e da reparti speciali di assaltatori fatti arrivare in aereo dalla Germania. E’ uno sforzo concentrato, per ricacciare di un colpo solo i difensori nel fiume. Ma i sovietici si sono ben trincerati, i "Panzer" tedeschi, fatti per gli spazi aperti e manovrabili, avanzano con estrema difficoltà fra i cumuli di macerie e sono vulnerabilissimi. I russi li lasciano passare e tagliano fuori la fanteria attaccandola separatamente e sconvolgendo così l’ordine di battaglia nemico. Tuttavia i tedeschi, per la quinta volta, sfondano il perimetro della testa di ponte, spezzano ancora in due tronconi le forze di Ciujkov e arrivano al Volga su un fronte di 500 metri. Con un altissimo tributo di sangue (dei 264 uomini del 118° reggimento della Guardia, dopo quattro ore di combattimento, rimangono appena sei superstiti) i sovietici arginano l’offensiva e dopo tre giorni di lotta i tedeschi devono constatare che, pur avendo acquistato altro terreno, non sono riusciti ad annientare la fitta rete di ridotte e fortini fra la collina "Mamaj" e le officine "Ottobre Rosso". Poco dopo l’alba di giovedì 19 novembre, fra le 6 e le 7, l’ora più silenziosa della giornata, i soldati russi accucciati nelle trincee sono destati all’improvviso da un sordo rombo che proviene da sud e da nord. Con una perfetta scelta di tempo, cioè nel periodo fra i primi geli che induriscono il suolo e consentono rapidità di movimenti e le prime grosse nevicate che invece bloccano ogni possibilità di manovra, i gruppi di armate di Rokossovskij, Vatutin ed Eremenko, realizzando il piano sottoposto già in agosto a Stalin da Zhukov e Vasilevskij, si sono messe in moto per chiudere la tenaglia sul Volga. Rokossovskij e Vatutin, dal Don travolgono i romeni; Eremenko avanza da Sud di Stalingrado. Nel complesso, le forze fresche lanciate dai russi ammontano ad più di un milione di soldati, 900 carri, 13.000 cannoni, 1100 aerei. Benché non vi sia grande differenza rispetto all’avversario ( stesso numero di uomini, 700 panzer, 10.000 cannoni, 1200 aerei), adesso i sovietici hanno notevolmente migliorato la qualità dei loro mezzi corazzati e i loro "Stormovik", cacciabombardieri muniti di razzi, sono i più pericolosi avversari dei carri e dei concentramenti di truppe. Dal 19 al 23 novembre, così, la controffensiva russa sbaraglia 15 divisioni tedesche, di cui tre corazzate, fa 60.000 prigionieri e le sue punte più avanzate, estremità della tenaglia, allo scadere del quinto giorno si incontrano a 65 km a ovest di Stalingrado, a Kalac . Lì, sul grande ponte che scavalca il fiume, passano tutti i rifornimenti per Paulus. Il ponte è stato minato; il reparto di genieri tedeschi che vi monta la guardia ha l’ordine di farlo saltare al primo apparire di un soldato russo. Alle 16,30 del 23 novembre, giornata insolitamente chiara, i tedeschi del presidio di Kalac avvistano una lunga fila di carri armati provenienti da nord: saranno amici o nemici? Mezz’ora più tardi, all’imbocco del ponte, appaiono tre semicingolati "Horch" con i distintivi della 22 Panzer. Ma, dalle torrette balzano fuori una sessantina di sovietici che annientano il presidio e fanno passare l’avanguardia di Rokossovskij. Il compasso previsto da von Schwedler si chiude: salda attorno ai tedeschi un anello che va dai 35 ai 60 km, trasforma gli assedianti in assediati e imprime una svolta decisiva all seconda guerra mondiale. Paulus, che è nelle vicinanze di Kalac e sfugge per caso alla cattura, rientra nella sacca ed apprende che il fianco sud è scoperto, che non ci sono riserve, che manca il carburante e che i viveri bastano appena per sei giorni. Come era stato irragionevole nello spingere le proprie armate nell’angolo morto di Stalingrado, Hitler è ora altrettanto irragionevole nel non voler mollare la presa. "Non lascerò mai il Volga" dice al generale Zeitzler, il nuovo Capo di Stato Maggiore dalla fine di settembre. "Stalingrado è una fortezza. Se è necessario la sua guarnigione sosterrà l’assedio tutto l’inverno ed io la libererò con una grande offensiva a primavera" . Per resistere all’assedio la 6 Armata avrebbe bisogno, ogni giorno, di 750 tonnellate di rifornimenti fra munizioni, carburante, foraggi e viveri (40 tonnellate solo di pane). L’aviazione da trasporto sostiene che un ponte aereo può trasportare al massimo 350 tonnellate. Goring, irritato, assicura ad Hitler che la Luftwaffe è in grado di rifornire la sacca con 500 tonnellate quotidiane. Dal 28 novembre i trimotori "Junkers" cominciano a decollare dagli aeroporti di Tazinskaia e Morozovsk, nell’ansa del Don, e con un volo di 200 km atterrano dentro la sacca, a Gumrak e a Pitomnik, riportando migliaia di feriti. Così il Fuhrer decide di portare diretto soccorso all’armata prigioniera e incarica von Mastein, il conquistatore di Sebastopoli e il suo miglior stratega, di spezzare l’accerchiamento russo servendosi della 4 armata corazzata di Hoth, della 3 e della 4 romene. Il 12 dicembre, da sud-ovest, Manstein lancia l’offensiva su un fronte di 100 km tra Tsimla e Kotelnikovski, a cavallo delle ferrovie che da Krasnodar e Vorosilovgrad vanno a Stalingrado. Il cuneo d Hoth penetra fino all’Aksai e il 13 attraversa il fiume, il 19 raggiunge la Mischkova in mezzo ad una tremenda tempesta di neve e il 21 è a Verkhene-Kumskaia: 130 dei 180 chilometri che lo separano dagli assediati sono stati coperti e di notte può vedere nel cielo i bagliori della contraerea di Stalingrado. L’offensiva, però, finisce qui. Il 16 dicembre, a monte del Don, un’armata sovietica ha investito le linee tenute dagli italiani aprendovi una falla profonda 50 km mentre nel Caucaso i russi si sono mossi, minacciosamente verso Rostov. Ancora un passo e anche Manstein rischia di cadere in una gigantesca trappola. Per la 6 armata rimane la sola possibilità di approfittare del cuneo per uscire combattendo dalla sacca. Paulus esita, teme di disobbedire all’ordine del Fuhrer che è quello di resistere sul posto; Manstein e colto dallo stesso timore e le disposizioni che impartisce per una sortita sono piene di riserve. In queste perplessità trascorrono due giorni preziosi. Poi Hoth si vede costretto a sospendere l’avanzata su Stalingrado per inviare una delle sue tre divisioni corazzate in aiuto al fronte del Don e Hitler è obbligato ad ordinare la ritirata nel Caucaso, pena la perdita di un milione di uomini. La 6 Armata è condannata; comincia la sua agonia, durerà 76 giorni. Divenuti a loro volta assediati i tedeschi ripetono il modello russo della resistenza ad oltranza: capisaldi nelle case, fabbriche contese palmo a palmo, battaglie accanite per una strada, una piazza od una altura, come la collina Mamaj, la “Collina della Morte”. La lotta, aggravata dalla prostrazione fisica e morale, è resa quasi insostenibile dall’inverno russo: a metà dicembre il sole cala poco dopo mezzogiorno, fra le 14 e le15 è notte completa. Il ponte aereo sbarca un a media di 94 tonnellate al giorno, un quinto del fabbisogno minimo, e spesso gli aerei anziché pane o medicinali, scaricano materiale di propaganda, giornali, caramelle, spezie, cravatte, cartone, filo spinato. A Berlino il generale Hube dice, secco, al Fuhrer: "Lei ha fatto fucilare dei generali dell’esercito. Perché non fa fucilare il generale dell’aviazione che le ha promesso di rifornire Stalingrado ?" . L’incerto Paulus raduna le forze costituendo i "battaglioni da fortezza" con uomini dell’aeronautica, artiglieri e carristi rimasti senza le loro armi, autieri, scrivani, personale dei servizi: la disciplina si rilassa, i casi di insubordinazione e di diserzione si moltiplicano e nella sacca, in dicembre-gennaio, vengono eseguite 364 condanne a morte. Il Capodanno 1943 porta un freddo micidiale (-40°) e la riduzione della razione di pane da 200 a 100 grammi. Tifo, pidocchi e dissenteria mietono vittime: i malati incapaci a muoversi sono 80.000, soltanto la metà potrà essere evacuata. Il mattino dell’8 gennaio tre parlamentari russi preceduti da una bandiera bianca si presentano alle linee tedesche a chiedere la resa dell’armata. Paulus lo comunica ad Hitler invocando "libertà di azione" ma il Fuhrer rifiuta. Allo scadere dei termini dell’ultimatum i russi riprendono l’offensiva appoggiata dal fuoco di 5000 cannoni, conquistano Krovzov, Zybenko, Dmitrevka, Karpovka, invadono quattro quinti di Stalingrado, costringono i tedeschi entro le rovine della città, s’impossessano dell’aeroporto di Pitomnik. La perdita di questa base essenziale per i rifornimenti porta ad una nuova riduzione delle razioni giornaliere: 75 grammi di pane, 200 grammi di carne di cavallo compresi gli ossi, 12 grammi di grassi, 11 grammi di zucchero, una sigaretta. Il 20 gennaio l’intendenza dell’armata decide di macellare i cavalli. Il 23, ancora una volta, Hitler proibisce la resa e Paulus si dice d’accordo con lui: "La domanda posta ieri sera dal generale Zeitzler se si possa dare ormai alla 6 Armata l’autorizzazione di resa – annota il diario di guerra dell’OKW – è stata respinta dal Fuhrer. L’armata deve continuare a combattere fino all’ultimo per guadagnare tempo. Il generale Paulus ha risposto al messaggio del Fuhrer con queste parole: “I vostri ordini vengono eseguiti. Viva la Germania” ". E, contemporaneamente, arriva la fine. Nell’ultima settimana di gennaio i sovietici occupano l’unico aeroporto rimasto ai tedeschi, quello di Gumrak. Il comando decide di abbandonare i 50.000 feriti ricoverati nei sotterranei delle due stazioni ferroviarie, nei ‘silos’ dei cereali, negli scantinati del teatro e nella ex sede del comando di presidio. I morti, per il terreno gelato e durissimo, non vengono più seppelliti, né i loro nomi registrati. Il 30 gennaio, decimo anniversario della presa di potere da parte dei nazisti, Hitler nomina Paulus feldmaresciallo e confida a Keitel: "Mai un maresciallo tedesco si è arreso" . Dodici ore dopo, uno spaventoso bombardamento dell’artiglieria russa si abbatte sul centro di Stalingrado, nella zona dell’ "Univermag", i magazzini generali, nelle cui cantine si trova il comando di Paulus. Alle 5,45 del mattino seguente, il 1° febbraio, la radio dell’Armata trasmette "I russi sono davanti al bunker. Distruggiamo la nostra stazione". Poi un ufficiale tedesco esce dall’ "Univermag" agitando una bandiera bianca e fa un cenno verso l’altra parte della strada, dove sono appostati i sovietici. Il tenente russo Fedor Michailovic Elcenko balza fuori della sua buca e si avvicina: "Il nostro grande capo" gli dice il tedesco "vuol parlare al suo grande capo". Elcenko sorride: "Stia a sentire," risponde "il nostro grande capo ha altro da fare. Il suo grande capo, se vuole, deve spicciarsela con me". L’altro riflette un momento, infine accompagna il tenente russo nello scantinato. Paulus, in uniforme, la barba lunga, pallido, è sdraiato su un branda. "Ebbene, è finita, così", gli dice Elcenko. Il feldmaresciallo gli rivolge un’occhiata e, con la testa, fa segno di sì. Poi si alza, prende un borsa, esce: un’auto sovietica lo conduce al comando russo dove lo attende il generale Voronov, rappresentante della "Stavka". La resa è accettata. Ma fra le macerie fumanti c’è ancora chi non si è arreso: sono gli uomini del generale Strecker, che costituiscono gli ultimi nuclei di resistenza all’interno della sacca nord di Stalingrado. Nonostante si sia reso perfettamente conto della tragicità della situazione, Strecker, che in un primo momento ha tentato di resistere agli ordini superiori che imponevano un inutile massacro, si è lasciato convincere dalle direttive provenienti da Berlino: che ogni sua ora di resistenza avrebbe permesso la creazione di un nuovo fronte di difesa. Quando però vede che le sue linee vengono travolte da fanteria russa, dà anche lui l’ordine di cessare il fuoco. Uno degli ultimi collegamenti radio con Berlino, forse il più significativo sul vero morale dei combattenti di Stalingrado, giunge, inaspettato, da questi uomini, quando, in risposta all’enfatico elogio letto da Goring alla radio tedesca, trasmettono a Berlino uno scarno messaggio: "Prematuri discorsi funebri indesiderati". Nella mattina del giorno 2 febbraio 1943 tutto tace definitivamente.
Dei 320.000 tedeschi di Stalingrado, 140.000 sono morti per ferite ricevute in combattimento, fame, freddo, malattie, 20.000 dispersi, 70.000 feriti ed evacuati prima e dopo la sacca. I superstiti 90.000 lasciano in mano ai russi 750 aerei, 1550 carri armati, 480 autoblindo, 800 cannoni e mortai, 60.000 autocarri e 235 depositi di munizioni e partono per i campi di prigionia della Siberia. Fra loro vi sono 2500 ufficiali, 23 generali ed un feldmaresciallo: torneranno in soli 5000, meno del 2 per cento. Alle 14.46 del 2 febbraio un aereo tedesco da ricognizione sorvola a grande altezza la città e trasmette questo messaggio: "A Stalingrado, nessun segno di combattimento".
I PROTAGONISTI Fieldmarshall Friedrich Paulus ---------------------------------- Nasce a Breitenau nella provincia di Hesse-Nassau il 23 settembre 1890. Nel febbraio del 1910 diviene Ufficiale cadetto del 111th Reggimento di fanteria . 1914 - 1918 : Partecipa alla prima guerra mondiale. Nel gennaio del 1942 diviene Comandante della 6th Armata. Nella primavera del 1942 è decorato con la ‘Croce di Ferro’. Nel gennaio del 1943 è decorato con la ‘Croce di Ferro di prima classe’. 31 gennaio del 1943 promosso Fieldmarshall nel gennaio del 1943 viene fatto prigioniero di guerra a Stalingrado. Nel novembre 1953 viene rilasciato. Muore il 1 febbraio del 1957 a Dresda nella ex Germania Est.
Maresciallo Georgy Konstantinovich Zhukov -------------------------------------------------- Nasce il 1 dicembre del 1896 in Russia nella provincia di Kaluga. Serve durante la prima guerra mondiale come coscritto nell’esercito imperiale russo. Nel 1918 entra nell’armata rossa come ufficiale di cavalleria durante la guerra civile russa. Nel 1931 studia in Germania nell’accademia di guerra di Frunze. Nel 1939 è comandante delle forze russe in Manciuria nella guerra contro i giapponesi. Nel 1940 partecipa alla guerra contro la Finlandia. Nel 1941 organizza la difesa di Leningrado e di Mosca. Nel 1942 è nominato comandate in capo delle forze sovietiche. Nel 1942/1943 pianifica la difesa di Stalingrado e la conseguente distruzione della 6th Armata Nel 1944 comanda l’offensiva sovietica in Biellorussia. Nel1945 comanda l’assalto finale a Berlino dove rimane fino al 1946 come comandante delle forze di occupazione. Muore il 18 giugno del 1974 a Mosca dopo essere stato decorato nel 1966 con l’ordine di Lenin.
Bibliografia : > di Arrigo Petacco Curcio Editore |
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