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Testimonianze: Una bella primavera
Argomento: Storia : Moderna Data: 19/11/2004
Definire il Dott. Fedrighini non è semplice, si tratta di una persona speciale, sicuramente fuori dal comune, oserei definirlo una persona d’altri tempi. Possiede una delle doti che al giorno d’oggi è sempre più rara: una innata gentilezza verso il suo prossimo, è una delle poche persone che conosco che quando incontra una signora, si toglie il cappello per porgerle il saluto. E’ un gesto antico, simbolo di una cavalleria forse ormai scomparsa del tutto ma che rendono questa persona unica. La sua storia è forse anch’essa unica: arrivò a Rolo durante la seconda guerra mondiale, sfollato con la famiglia per sfuggire dai bombardamenti e da allora non se ne è più andato, o meglio, ha mantenuto un cordone ombelicale lungo oltre sessant’anni!


Allora giovane studente, finì gli studi universitari, laureandosi in ingegneria; fu poi maestro elementare per qualche tempo nel dopoguerra e fu poi fu assunto, con cariche sempre più importanti alla Fiat a Torino, città dove poi si trasferì anche se non abbandonò mai completamente il piccolo borgo che lo vide ragazzo.
Da qualche tempo è in pensione e trascorre nel nostro paese lunghi periodi e, sapendolo acuto osservatore e interessato alla nostra storia, ho colto l’occasione per chiedergli se poteva concedermi un po’ del suo tempo per parlarmi dell’occupazione tedesca a Rolo tra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945.
Mi ha ricevuto nel suo studio un pomeriggio e devo dire che è stato un incontro decisamente interessante. Sono stati ripercorsi i mesi che videro l’arrivo delle truppe tedesche dopo l’armistizio dell’otto settembre, annuncio che , come la maggior parte degli italiani ascoltò per radio. Ha ricordato il trambusto di quei giorni, i soldati italiani sbandati che cercavano di raggiungere le proprie case; l’arrivo delle primi sidecar tedeschi che rombando passavano per la piazza principale del paese. E poi l’arrivo delle vere e proprie truppe d’occupazione, circa 50 soldati, divisi in due comandi, che a seconda delle esigenze arrivavano anche a 200 unità; uomini non più giovani, di circa 40/50 anni appartenenti a reparti della Lutfwaffe e della Flak che presidiavano gli enormi depositi di munizioni sparsi per le campagne e celati per lo più sotto i vigneti e gli olmi. Ricordava bene quegli uomini, addirittura qualcuno ancora per nome, soldati sfiduciati e ormai stanchi della guerra, desiderosi solamente di raggiungere le proprie case e le proprie famiglie al più presto. Mi ha raccontato diversi episodi: la nascita della resistenza, i primi agguati partigiani, i primi morti, il terribile inverno del 1944/45, l’arrivo dei terribili “mongoli” (così la popolazione chiamava i cosacchi alleati dei tedeschi) , gli attacchi dei cacciabombardieri alleati in particolar modo alla stazione e alla ferrovia Modena-Verona, le ultime sanguinose rappresaglie e poi negli ultimi giorni di Aprile , la fuga dei fascisti e dei tedeschi di fronte all’avanzata delle truppe americane e poi…la liberazione…..
Uno di questi episodi che mi è stato raccontato mi ha colpito maggiormente per la sua semplicità e per la sua malinconia e, caso più unico che raro nella mia storia di “raccoglitore” di racconti e storie orali, l’ho scritto, o meglio è stato scritto a quattro mani, narra di una piccola storia persa nella lontana primavera del 1945….

Il cielo immenso e opaco dilaga fino agli ultimi confini dello sguardo.
Un filare di pioppi, striminziti dall’inverno, screzia la linea piatta dell’orizzonte.
Nubi sfilacciate dal vento lasciano cadere sui campi la loro fuggevole ombra dai contorni indecisi.
Solitario, sul verde alabastro delle piante, immobile contro il fluttuante chiarore del mattino, s’innalza il campanile.
Quali rintocchi hanno meglio scandito il trascorrere del tempo?
Dalla cella campanaria, in questa magra primavera del 1945, l’occhio si perde nella fuga prospettica dei canali dagli argini macchiettati di giallo.
Scatta l’immobile strisciare delle lancette; si addossano l’uno all’altro i tetti del paese. Le vuote occhiaie del portico sfilano dal Salone al Leon d’oro. Sotto quelle mute volte si celano autocarri tedeschi carichi di materiale per il fronte: vettovaglie, armi, munizioni, benzina e pezzi di ricambio per i mezzi da guerra, pezzi forse ancora più preziosi dei viveri per i soldati, senza di essi la macchina bellica tedesca cesserebbe di funzionare.
Addossato alla balaustra della cella campanaria il caporale Fritz oscilla lo sguardo tra il paese e gli spazi aperti dell’orizzonte per segnalare la comparsa puntiforme degli aerei americani sempre presenti e pronti a colpire, o movimenti sospetti e furtivi di uomini armati tra gli spogli filari degli olmi.
Quando vede emergere la mia testa dalla botola di legno mi riconosce, sorride e mi dice:
- Bella primavera!
- Bella – rispondo io.
Mi offre una sigaretta dalla cartina ingrigita,
- Io ricordare la bella primavera di Pomerania….. – continua guardando assorto davanti a se, e poi mi fa un lungo discorso in tedesco, aiutandosi con i gesti e la mimica del volto per farmi capire. Parla del suo paese sperso nella pianura di Pomerania. Come il nostro ha un campanile con l’orologio, e dall’alto della cella campanaria si vedono i tetti spioventi delle case abbarbicate l’una all’altra, con due file di portici dalle arcate gotiche.
Tanti comignoli fumanti disegnano nel grigio cielo settentrionale strani ghirigori infantili che il vento del nord dissolve. Il cielo, a primavera, è tutto un volo di cicogne che tornano ai loro nidi, l’aria risuona del battere frenetico dei loro lunghi becchi.
Il caporale Fritz ride come un bambino e al ricordo il viso si apre di gioia.
- Piccole case…- dice, e indica col fucile i dadi grigiastri dei casolari, al limitare delle piantate in campagna.
- Piccole case e piccoli carri…..uomini e donne andare…..cantare…schone Madchen…..capito??…belle ragazze amare bella primavera con amici e amiche….tante cicogne….lontano, molto molto lontano….
Continua a parlare, lo sguardo assente come sperduto nel labirinto di ricordi, ma gli occhi sono diventati lucidi e nella voce c’è un’incrinatura di pianto. Si riscuote da quella sua malcelata rassegnazione e mi prende una mano tra le sue.
- Quando guerra finire, quando tutto questo finire, io tornare qui, forse prossima primavera, non divisa e fucile, ma con mio bel vestito di Pomerania….
Lo riscuote improvviso, un lontanissimo rombo. Subito afferra il binocolo e gira lo sguardo lentamente.
L’orologio della torre batte stancamente le dieci e uno stormo di rondini s’invola sul parco di villa Resti Ferrari.
Il caporale Fritz non è mai più tornato con il suo vestito di Pomerania.

Stefano Carletti

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