| Testimonianza del Sottocapo Egidio Cateni, Compagnia Mitraglieri, Battaglione Barbarigo, Decima MAS |
“Quando ci arrivò l’ordine di andare sul San Gabriele eravamo in una casa fortificata sul Sella Dol, dove dormivamo a turno perché eravamo troppi per starci tutti dentro. La mattina, mentre ci stavamo preparando per l’attacco, arrivarono i pezzi d’artiglieria da 75/13 del Gruppo San Giorgio, che si piazzarono in posizione scoperta. Subito gli slavi aprirono il fuoco contro gli artiglieri, che si ripararono dietro le scudature dei cannoni e risposero al fuoco, battendo efficacemente le posizioni nemiche sul fianco e sulla cima della montagna. Dopo poco tempo il Sottotenente di Vascello Tajana e Farotti ci ordinarono di prendere la cima del monte. Noi mitraglieri pensavamo che andassero prima gli Arditi e i fucilieri del Battaglione, invece mandarono proprio noialtri, tanto che Brunetti, il mio porta treppiede della Breda 37 mi disse: “Ma mandano sempre noi!”. Comunque andammo su tra la neve, sfruttando gli appigli del terreno, molto scosceso, e sostando molte volte per piazzare le Breda, che pesavano con il treppiede quasi 40 chili, e rispondere al fuoco degli sloveni, che ci sparavano con armi leggere e qualche mitragliera, delle quali distinguevamo la cadenza di fuoco più lenta. Gli slavi erano gente dura e continuarono a spararci addosso sino a quando non fummo a pochi metri dalla cima, e solo a quel punto ripiegarono sull’altro versante. Allora mettemmo in posizione le nostre mitragliatrici, una avanti e una dietro, ci suddividemmo i settori di tiro e le mettemmo già in punteria; la mia batteva tutto il costone. Farotti si era sentito male e il comando passò all’Ufficiale in seconda, anche lui degli Alpini. A sera gli slavi vennero avanti tentando di tenderci un tranello ma noi li scoprimmo grazie a Tommasini, che parlava sloveno, e li colpimmo quando ormai erano a trenta metri da noi, li vedevamo come sagome nella foschia. Loro ci lanciarono contro molte bombe a mano Balilla italiane, che fortunatamente non esplosero perché la neve profonda non faceva scattare il loro detonatore, e noi gli tirammo le bombe a mano tedesche, quelle con il manico, ma poche perché quelle tedesche valevano oro! Abbiamo sparato tutta la notte, un po’ per paura che ci sorprendessero e un po’ perché sentivamo il nemico che si muoveva, ogni tanto tiravamo un illuminante, ma non tanti perché con la luce vedevano anche noi. Questione di minuti e mi sono reso conto a che livello dovevo sparare, mirando verso il basso, ed è stato efficace, li abbiamo visti la mattina. Non li ho contati, ma ci dissero che avevamo fatto fuori il Plotone Comando della Brigata nemica. La mattina dopo vedevamo in valle e sui monti i titini che si ritiravano e i nostri mortai iniziarono a colpirli. Dirigeva il fuoco il Guardiamarina Posio, mortaista eccezionale, sembrava mettesse con le mani le bombe dei mortai tra le file degli slavi; i tedeschi lì intorno gli dicevano entusiasti “Schön, Gut, Wunderbar!”… Io ero già reduce da Anzio, e anche se agli inizi sei inesperto, se sopravvivi i primi quindici giorni di fronte i tuoi sensi si acuiscono, riconosci i rumori delle diverse armi nemiche… il tuo udito diventa pari al fiuto degli animali. Quando ho ucciso il mio primo nemico, era un inglese e lo colpii con un fucile con cannocchiale, ne rimasi sconvolto e non ci ho dormito una notte, quando poi ho visto i miei amici, quelli con cui avevo condiviso tutto, morti o feriti, fatti a pezzi dall’artiglieria Alleata ad Anzio, ne avrei voluto cento, di fucili con cannocchiale!”.
“I rifornimenti ci arrivavano talvolta si talvolta no, ci portavamo qualche galletta e scatolette nel tascapane, sennò ci arrangiavamo rubando le galline ai contadini. Nella ritirata dal fronte Sud ci siamo portati dietro per giorni da Adria lo zucchero grezzo, e siccome c’erano i Monopoli siamo andati avanti a barbabietole e sigarette. Tutti i ponti erano distrutti, marciavamo nei greti dei torrenti. Per sei giorni, dal 25 al 30 aprile, sino a Padova, non ci arrivava niente da mangiare. E nessuno cedeva. Quando ci hanno detto di arrenderci, ci siamo ribellati agli Ufficiali. C’era l’NP, il Barbarigo, il Lupo e il Freccia, eravamo 3.000 uomini ancora in armi, non capivamo perché dovevamo arrenderci, non sapevamo cosa era successo. C’è voluto del bello e del buono”.
“L’Ufficiale resisteva con noi perché era un buon Ufficiale. Con noi Volontari non andavano bene gli Ufficiali “ubbidisci e stai zitto” tipici del Regio Esercito. C’erano nel Barbarigo molti Ufficiali degli Alpini, li sceglieva Bardelli, perché avevano lo stesso spirito della Decima, l’Ufficiale era sempre con i suoi uomini, dormiva e mangiava con te, aveva la divisa sporca come la tua”.
“Ad Anzio questo Maresciallo dei Panzergrenadiere senza alcune dita di una mano, reduce dalla Russia, pluridecorato e esperto distruttore di carri ci insegnò a lanciare i Panzerfaust: avevamo i 30 e i 60, ma per l’addestramento usavamo i Panzerfaust 30. Quelli avevano poca gittata, e dovevi veramente lasciare che i carri si avvicinassero un po’ troppo. Ci insegnarono a colpire i carristi quando fuggivano da un corazzato colpito: un carro armato gli Alleati lo rimpiazzavano subito, ma per addestrare un carrista ci vogliono mesi. Ci insegnarono a non tirare subito al primo carro di una fila, ma a piazzarci bene e a sparare il razzo contro il terzo o il quarto, cosicché spesso i capicarro dei restanti credevano di essere colpiti da tergo, e si fermavano e si giravano; a quel punto gli altri dei nostri tiravano al primo ed all’ultimo carro armato nemico. Distruggemmo diversi carri inglesi e americani, e alcuni Bren Carrier della Cremona sul Senio con queste tattiche. I Bren Carrier li colpimmo durante la ritirata verso il Po con uno stratagemma: eravamo inseguiti dal nemico, e la zona era pianeggiante. Solo in un punto vi era una curva della strada con il terreno un po’ più misto. Uno dei nostri Ufficiali prese del grasso e con esso scrisse su un cartello “Welcome Americans”, e lo mise appena dietro la curva. Gli chiesi il perché e lui mi disse “Lo vedrai”. Ci appostammo dietro la curva e non appena i Bren Carrier arrivarono e si fermarono dal cartello sparammo con le mitragliatrici e tirammo i Panzerfaust. Contenti, credevamo di aver colpito degli inglesi, ma quando ci avvicinammo ai Bren Carrier immobilizzati sentimmo dei lamenti in italiano. Erano quelli della Cremona, i feriti ci chiedevano di essere portati via in ambulanza. Noi li bendammo e gli dicemmo che ambulanze non ne avevamo ma che quando arrivavano i loro compagni di non oltrepassare la curva perché gli avremmo sparato con degli 88 mm (che non c’erano!)… e continuammo la ritirata…”.
“Il Maresciallo dei Panzergrenadiere ci insegnò durante i combattimenti notturni a distaccare un Marò della Squadra lontano dagli altri e da una posizione defilata a sparare con il fucile rivolto in alto, in modo da rendere ben visibile la vampa: a quel punto gli altri sparavano alle vampe del tiro di reazione del nemico. Oppure a pulire bene dalla polvere con delle frasche le finestre e i lati delle feritoie ricavate nelle case, cosicché era minimizzata la polvere sollevata dalle vampe delle nostre armi, e che poteva tradire la nostra posizione. Eppure anche noi “lo battemmo”, una volta: in pattuglia ad Anzio vidi le canne al centro di un canneto muoversi mentre le altre erano ferme. Le indicai al Maresciallo tedesco, lui annuì e mi fece avvicinare con la MG-42, dicendo di aspettare che il nemico fosse a 50 metri, io aspettai che fossero ancora più vicini, per dimostrargli che noi italiani non avevamo paura (anche se un po’ ne avevamo, di paura, io e Brunetti, il mio assistente tiratore alla MG) poi sparai e li colpii. Il Maresciallo disse che erano marocchini, e mentre stavo per spostarmi in avanti per trovare da mangiare tra i nemici, il tedesco mi disse, “Nicht, Zurück, indietro”, io non capii ma obbedii… e dopo qualche minuto capii eccome, l’esperto Panzergrenadiere aveva ragione: una pioggia di granate di mortaio Alleate piovve nell’area da dove avevamo sparato”. |
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