| Nel Giugno del 1940, l’A.O.I. era di fatto isolata dall’Italia, se si eccettuava qualche volo di collegamento, che aveva più il sapore di un raid che quello del volo di rifornimento vero e proprio. Già nel maggio del 1939 Amedeo d’Aosta, fresco viceré d’Etiopia, aveva presentato un piano dal costo di 4,8 miliardi di lire, che garantiva l’autosufficienza della colonia dalla madrepatria per almeno un anno, il denaro fu rifiutato da Roma senza pensarci due volte, allora il Duca tornò alla carica con un piano ridotto che avrebbe garantito sei mesi d’autonomia, circa 1,5 miliardi, gli furono concessi 900 milioni, che però materialmente non ebbe mai. |
Allo scoppio della guerra, il viceré riunì i vari governatori per fare il punto della situazione, da Roma pochi giorni prima erano arrivati 24 M11/39 e 24 CV35, di rinforzo agli ormai logori e i residui 11CV33 che già si trovavano nella colonia, le riserve di carburante furono stimate sufficienti per sei mesi, le munizioni d’artiglieria erano al livello previsto, le armi portatili arrivavano alla metà del fabbisogno, vi erano diverse vecchie autoblindo Lancia 1ZM. Pochissime le armi antiaeree e le mitragliatrice pesanti, tutto il materiale risaliva alla prima guerra mondiale. Le numerose bande locali che collaboravano con il nostro esercito, si palesarono particolarmente infide con lo sviluppo degli avvenimenti, a differenza dei regolari eritrei che restarono al fianco del viceré fino alla fine. La Regia Aeronautica disponeva sulla carta di 325 velivoli di cui però solo 183 efficienti, ma di questo si parla in modo più ampio in un altro articolo.
Allo scoppio della guerra, il comando generale d’Addis Abeba, ricevette da Roma la seguente direttiva: “Tutelare l’interno e difendere dall’esterno l’integrità del territorio dell’Impero.” Una frase assai ampia e di stampo difensivista, diceva tutto e niente, il giovane impero se aveva raggiunto un ottimo grado d’organizzazione per quello che riguardava le esigenze puramente coloniali, era completamente impreparato per fronteggiare la prova che lo attendeva senza nessun appoggio dalla madre patria, cioè combattere un esercito moderno e motivato. Il viceré stilò una lista di obbiettivi militari da raggiungere al più presto, il crollo della Francia, fece cancellare Gibuti dalla lista degli obiettivi, e si procedette all’occupazione di Cassala, nel Sudan, importante nodo di comunicazioni, toccava adesso alla Somalia Britannica.
Sulla carta c’era una soverchiante superiorità numerica degli italiani, tra l’altro gli inglesi, sopravalutavano ampiamente le reali possibilità delle truppe del viceré, ciò fece sì che nelle fasi iniziali della guerra, la presenza italiana nel Corno d’Africa, fosse considerata un problema molto serio. In quel momento della guerra, nessuno scenario britannico prevedeva la possibilità di imporre una resa alle colonie italiane, anzi si temeva l’esatto contrario, con gli italiani padroni in pochi giorni dell’Egitto e del Kenya!
La campagna dell’AOI, inizia con l’invasione italiana della Somalia Britannica, in aperto contrasto con le direttive ricevute da Roma, ma il viceré voleva privare gli inglesi di una potenziale base per successive operazioni future. Sia la Somalia Italiana che quella Britannica, sono due pezzi di deserto, inutili per qualsiasi sfruttamento economico, a circa 80 km verso l’interno, corre un’alta catena di montagne laviche sui 2000 metri, un invasore che viene dall’Etiopia le deve necessariamente attraversare, o li si ferma qui, oppure non lo si ferma più, non vi sono altre posizioni difensive.
La prima valutazione inglese, fu che non era possibile difendere la Somalia, ciò equivaleva a lasciare agli italiani, l’intera costa del golfo d’Aden. Il generale Wavell, subito prima della dichiarazione di guerra dell’Italia, visitò la Somalia e decise che dopotutto, si doveva fare uno sforzo per tenerla, occorrevano minimo cinque battaglioni, ma all’inizio dell’invasione italiana, il 3 agosto del 1940, il Brigadiere Charter, comandante della colonia ne aveva appena due, uno Rhodesiano e l’altro di Punjab, più il piccolo ma mobilissimo Camel Corps Somalo. Aveva di fronte il generale Nasi, forte di 26 battaglioni, artiglieria, quattro batterie da campagna e carri. Gli inglesi non avevano avuto modo e tempo di costituire apprezzabili opere difensive, né di chiudere i passi montani, il più importante dei quali era quello per cui passava la sola strada degna di tale nome per Berbera, quello di Tug Aran.
Il 3 Agosto dunque, le truppe di Nasi varcarono la frontiera completamente aperta, e si frazionarono in due colonne, una puntò subito verso Gibuti, senza che gli inglesi potessero fare nulla per fermarla, ed in soli due giorni raggiunse l’obbiettivo di bloccare la guarnigione francese, il resto delle forze gestite dal generale De Simone avanzò verso Hargheisa, su questi si appuntò l’attenzione del Camel Corps. Pur costretto a ritirasi continuamente, esso applicò ogni sorta di azione per ritardare l’avanzata del nemico, De Simone impiego due giorni per coprire i circa 40 km che lo separavano da Hergeisa, e una volta raggiunta, invece di buttarsi subito sul Tug Aran, perse ben tre giorni fortificando la cittadina nell’attesa di un violento contrattacco inglese. L’11 Agosto raggiunse comunque il Tug Aran, ma i tre giorni persi permisero agli inglesi di far arrivare un terzo battaglione, quello dei famosi “Black Watch” scozzesi, e di completare la realizzazione dei loro fortini sul Tug Aran. Gli italiani attaccarono subito con un pesantissimo sbarramento di artiglieria e con una intera brigata, un’altura tenuta da una sola compagnia di Punjab, sbaragliandola. Il giorno successivo, con un enorme sacrificio da parte inglese, gli italiani non riuscirono ad avanzare oltre e così fino al 14, quando per evitare l’accerchiamento, l’unica soluzione divenne evacuare la Somalia, cosa che fu fatta entro il 19 Agosto, giorno in cui De Simone entrava a Berbera, senza grossi affanni, tranne qualche azione di retroguardia ben condotta dagli scozzesi, che costò severe perdite alle truppe italiane.
La conquista della Somalia Britannica era costata agli Italiani 2052 effettivi contro le 290 perdite inglesi, gli inglesi si resero conto che senza un adeguato appoggio di artiglieria, non avrebbero avuto nessuna speranza di successo, tutte queste esperienze ebbero profonda influenza sullo sviluppo delle azioni nel Corno d’Africa nei mesi successivi.
Analizzando le caratteristiche delle truppe contrapposte, è vero che il nostro corpo di spedizione era composto da 26 battaglioni, contro tre inglesi, ma dei nostri, solo due battaglioni erano composti da effettivi nazionali, con la qualità che ne consegue. Le nostre artiglierie erano compose da 22 batterie di cannoni da montagna da 65 mm, la massa dei servizi era affidata ad una enorme sfilza di muli, il che significava una enorme appesantimento dei rifornimenti. Gli inglesi erano perfettamente preparati dal punto di vista logistico, come fecero chiaramente vedere durante lo sganciamento dal passo di Tug Aran, gli italiani avanzavano a circa 6 Kmh, quando gli inglesi si muovevano ad una media di 11, c’era poco da inseguire. Circa la tenace resistenza opposta dagli inglesi dal 11 al 14 Agosto sul Tug Aran, è interessante la relazione che De Simone redige dopo aver ispezionato i fortini inglesi abbandonati:
“….che queste perdite (quelle britanniche n.d.r.) fossero leggere fu dovuto al fatto che la maggior parte delle truppe attaccate fossero su solide difese……il fortino si presenta accuratamente e sapientemente organizzato, ha numerose caverne naturali e artificiali (circa 20) con volte rinforzate da cemento e feritoie ampie e ben mascherate; numerose sono le armi a tiro teso e curvo che da postazioni accuratamente scelte, battono intensamente e per notevole profondità tutto il terreno circostante; è dotato di viveri e munizioni in abbondanza; ha una rete di collegamenti multipli a filo e senza filo che assicura la tempestiva trasmissioni degli ordini di fuoco, tabelle affisse ad ogni feritoia permettono l’immediato calcolo di distanze e punti di riferimento, riportando già gli alzi previsti in funzione del tiro. L’acqua e assicurata da tubazioni interrate e da un impianto idrico che sollevando l’acqua dal Tug Aran, riempie un serbatoio di cemento e la distribuisce ai fortini. Piste di arroccamento a tergo assicurano spostamenti rapidi fra i fortini e l’arrivo di rifornimenti. L’organizzazione è completata dalle difese passive, costituite da fasci di ramaglia spinosa che mascherano i reticolati. Le artiglierie hanno tutte piazzole multiple collegate da tronchi di binari decauville per un loro rapido spostamento……..”
Scalzare da queste posizioni gli inglesi sarebbe stato difficile, sanguinoso ed avrebbe richiesto un accerchiamento, per nostra fortuna agli inglesi servivano soldati vivi e non morti, quindi se andarono da soli, da una posizione saggiamente considerata indifendibile nel lungo termine. Tra l’altro Wavell ricavò un’impressione che poi divenne certezza sui comandanti italiani: messi di fronte ad un nemico mobile, ne rimanevano abbagliati, quasi vedessero qualcosa di incredibile, di fantastico, e finivano per perdere la bussola. Questa impressione divenne certezza nella successiva riconquista del Somaliland, ad agosto gli italiani erano padroni del Corno d’Africa, ma lo sarebbero rimasti pochissimi mesi.
Bibliografia:
G. Ciano - Diari 1936-1942 (edizione integrale a cura di Renzo De Felice) - Ed. BUR I. Montanelli, M. Cervi - L'italia del novecento - Ed. Superpocket E .Bauer - Storia controversa della seconda guerra mondiale - Ed. Garzanti Storia della Seconda Guerra Mondiale Ed. Russell-Rizzoli (1966) |
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