: GORIZIA - La Battaglia di Chiapovano |
Inviato da Barbarigo il 17/2/2005 14:53:28 (1590 letture)
| Anteprima inedita tratta da: Sotto tre bandiere, le memorie di Giorgio Farotti: Sottotenente nel REI, Guardiamarina nella X MAS, Generale nell’EI, Associazione ITALIA-Effepi, 2005
A cura di Enrico Frattini e Andrea Lombardi Con la collaborazione del Maggiore Stefano Basset e Giovanni Buongirolami | Vi arrivammo a metà dicembre e fummo accantonati proprio a Salcano vicino a quel ponte che avevo difeso con i miei Alpini dall’ottobre 1943 al gennaio 1944. La situazione, però, era molto cambiata sia militarmente, sia politicamente. Un anno di amministrazione tedesca (o meglio di tipo asburgico) aveva creato una profonda depressione morale nelle Autorità e nella popolazione italiana, C.L.N. compreso. Alla forza morale, all’entusiasmo patriottico di quei giorni del settembre-ottobre 1943 che io avevo vissuto, era succeduto un torpore, una assenza di reattività da parte degli italiani alle prevaricazioni e soprusi commessi dalle autorità tedesche, in combutta con cetnici e domobranci loro alleati ed insediati in zona, dopo il loro ritiro forzato dalla Croazia, ormai tutta occupata dalle truppe di Tito. All’improvviso, l’arrivo della Xª ed alcuni episodi di spavalda esuberanza giovanile valsero a riaccendere nei goriziani sia la speranza, sia la passione patriottica ma di questo argomento parlerò più avanti, ora preferisco invece accennare a quella che avrebbe dovuto essere la nostra attività operativa secondo un piano, concepito dal comando tedesco e denominato Adler, molto ambizioso poiché si riprometteva, addirittura, d’annientare le Brigate partigiane operanti, ormai minacciosamente, nell’entroterra di Gorizia. Ai reparti della Xª, volutamente, erano stati assegnati i compiti più impegnativi: essi infatti, dovevano muovere, in un contesto territoriale sconosciuto e molto ostile, con una colonna su Tarnova e Loqua, una seconda nel vallone di Chiapovano fino a Locavizza ed una terza da San Lucia d’Isonzo a Slappe e, se possibile, a Tribussa Inferiore. Il giorno 19 dicembre i primi ad entrare in azione fummo noi del “Barbarigo” con obiettivo Chiapovano, divisi in due aliquote: una sull’itinerario Gargaro-Fobiza-Raune-Battaglia-Locavizza attraverso l’altipiano della Bainsizza e l’altra nel Vallone ma percorrendo, per sicurezza, una mulattiera a mezza costa passante per Pustala. Il Battaglione fu trasportato con autocarri fino a Gargaro, poi si divise come ho già detto e proseguì appiedato mentre gli automezzi rientrarono alla base, salvo uno assegnato alla IV Compagnia per il trasporto dei mortai da 81. Ciascuna aliquota assunse il dispositivo di marcia con misure di sicurezza ed iniziò il movimento di prima mattina. Era una giornata serena molto fredda; ricordo che, mentre mi stavo portando in testa alla mia Compagnia Mitraglieri, uscì da una casa una contadina che, piangendo, ci gridò in lingua slovena di non andare perché le montagne erano piene di partigiani e non voleva che anche noi, così giovani, facessimo la fine di suo figlio, partito per la Russia e caduto su quel fronte. Le chiesi, allora, se potesse darmi notizie precise sull’ubicazione dei partigiani, ma non mi rispose e sempre piangendo corse a chiudersi in casa. L’episodio valse a renderci molto più guardinghi nel procedere, rafforzando ulteriormente il sistema di sicurezza con pattuglie di combattimento dotate di armi automatiche. La prima giornata non fece registrare combattimenti di rilievo, le nostre pattuglie sostennero scontri a fuoco con elementi avversari che subito si dileguarono nei boschi circostanti, fu incendiata una casa con la conseguente esplosione delle munizioni in essa nascoste e pernottammo nella località di Podlaka. Il cielo si mantenne sereno anche il giorno seguente ma la temperatura si abbassò ed una gelida bora, contro la quale più che il nostro inadatto equipaggiamento valse a proteggerci la grappa del parroco del paese di Battaglia della Bainsizza., cominciò a spazzare l’altopiano. Lo attraversammo senza difficoltà particolari ed al tramonto del 22 dicembre entrammo, incontrastati, nell’abitato di Chiapovano, sistemando i reparti nelle case disponibili per pernottarvi al coperto ma attuando un rinforzato servizio di scolte, anche se a turni abbreviati per il freddo intenso. Devo aggiungere che all’inizio delle operazioni i colleghi mi avevano dato atto, inaspettatamente, della loro stima e fiducia chiedendomi di vagliare le modalità esecutive e soprattutto gli ordini ricevuti, per apportarvi eventuali modifiche, al fine di evitare di trovarci, poi, in qualche pericolosa situazione. Il Comandante fu improvvisamente convocato a Gorizia ma, prima che partisse con il suo Aiutante Maggiore, ottenni di schierare, alle prime luci dell’alba, il Battaglione fuori dell’abitato su delle posizioni che la mia esperienza di guerra mi induceva a ritenere più consone a fronteggiare un eventuale attacco. Francamente la situazione in cui, non per nostra volontà, ci eravamo messi non mi piaceva; un sesto senso mi faceva prevedere che difficilmente l’avversario si sarebbe lasciato sfuggire un’occasione così favorevole: eravamo finiti in un cul de sac, dominato dalle alture circostanti, facilmente accerchiabile; restare, quindi, nelle case avrebbe significato un sicuro annientamento del Battaglione. Non potendo effettuare una ricognizione del terreno poiché ormai il buio era totale, studiando le carte topografiche della zona, per fortuna al 25.000 e quindi abbastanza precise nei particolari, mi accorsi che a nord dell’abitato la valle si allargava ed i suoi versanti laterali non erano più ripidi e scoscesi ma degradanti su una successione di costoni ad andamento obliquo, ottimi come appiglio tattico per creare una posizione di resistenza. Soltanto il centro della valle non poteva essere presidiato perché allo scoperto e percorso dalla rotabile ma questo fatto poteva essere da noi sfruttato per incanalare l’attacco nemico dentro quell’imbuto naturale, portandolo sotto il tiro delle nostre armi pesanti. Assegnai, quindi, il versante sinistro più dominante alla mia Compagnia Mitraglieri e quello destro alle due Compagnie Fucilieri, schierando i mortai in posizione arretrata e coperta dietro la Compagnia Mitraglieri ed i cannoni 47/32 in prossimità della strada, in posizione sovrastante la medesima. Alle prime luci del giorno ventiquattro mi assicurai della precisa esecuzione degli ordini, controllando lo schieramento dei reparti personalmente, arma per arma, in modo d’avere la certezza che qualsiasi possibile via di attacco nemico fosse battuta dal fuoco delle nostre armi automatiche. Rientrai quindi al mio posto di comando, ubicato nell’ultima casa del paese lato nord, tra l’altro ancora occupata dai suoi abitanti, donne, vecchi e bambini, motivo per me di imbarazzo e preoccupazione. Li mandai tutti in cantina, onde evitare un loro coinvolgimento in un eventuale scontro ravvicinato. Alle ore dieci la temperatura era ancora molto bassa, nonostante il sole, ed ecco arrivare una staffetta ad annunciarmi l’inizio dell’attacco nemico. Accorsi immediatamente sulla linea del fuoco per rendermi conto della situazione: una Squadra Mitraglieri aveva perso il suo comandante, colpito alla testa mentre cercava di spostare personalmente l’arma, per sistemarla in una postazione migliore. I Marò furono rinfrancati dalla mia presenza: per loro era il battesimo del fuoco ed io, conscio di questa loro necessità, percorsi in piedi tutto lo schieramento, incitandoli a vendicare il loro primo caduto. Da come l’attacco veniva delineandosi, mi resi conto dell’importanza difensiva di un certo tratto di terreno che prima non avevo potuto individuare e vi schierai immediatamente l’unico Plotone Mitraglieri comandato da un Ufficiale, con la consegna scritta di non ripiegare se non dietro un altro mio ordine scritto. Pensavo, così, di ottenere la massima garanzia d’esecuzione dell’ordine; purtroppo non potevo prevedere la vigliaccheria di colui al quale avevo dato la mia fiducia e che tra l’altro era stato mio compagno di corso all’Accademia Militare. Con le prime ombre della sera fu preso dal panico, soprattutto per l’impiego abbondante di proiettili traccianti da parte dell’avversario ed abbandonò la posizione affidatagli, costringendomi a far ripiegare anche i rimanenti plotoni anzitempo e creando una serie d’imprevisti che ci costarono qualche ferito e la perdita di un cannone da 47/32. Inconsciamente, ormai, mi ero investito delle funzioni di Comandante di Battaglione e perciò mi recai a prendere visione di quanto accadeva agli altri reparti, impartendo gli ordini necessari per il loro sganciamento e soprattutto concordai con il Tenente Piccoli le azioni di fuoco dei mortai da 81. Purtroppo, non potevano essere eseguite cortine di sbarramento per l’insufficienza delle munizioni: dovevano giungere con un autocarro la sera precedente ed invece erano ancora in viaggio e chissà dove, perché caricate su di un carro trainato da buoi ed avviate a Chiapovano per l’itinerario della Bainsizza! Conclusione avevamo al seguito le sole dotazioni d’arma spalleggiate e dovevamo centellinare i colpi! Resistere a lungo in quella situazione era pressoché impossibile, potevo solo sperare che il nemico non se ne rendesse conto prima dello sganciamento, da me programmato al termine dell’arco diurno. Durante la ricognizione con Piccoli, nel tentativo d’individuare le sorgenti di fuoco nemiche, fummo fatti segno a diversi colpi di lanciagranate ed all’improvviso ci trovammo entrambi per terra con le nari piene dell’acro odore dell’esplosivo, storditi ma incolumi. Il combattimento proseguì per tutta la giornata ma con maggiore prudenza da parte avversaria dopo lo slancio iniziale e le perdite subite; mi fu portato ad un certo punto un prigioniero che risultò essere uno dei tanti sbandati del nostro Esercito che dopo l’otto settembre 1943 si erano aggregati alle bande di Tito. Mi dichiarò di fare il barbiere, aveva con sé i ferri del mestiere ed allora, per accertarne l’attendibilità, mi feci radere seduta stante. Parlandogli capii che era soltanto un povero diavolo di Bari, travolto da avvenimenti più grandi di lui e gli risparmiai la dura legge di quella guerra che non voleva prigionieri (s’arruolò nelle nostro file e divise le sorti del Battaglione fino alla fine, compresa la dura prigionia in terra d’Algeria). Nel tardo pomeriggio, mentre ispezionavo di nuovo le postazioni assegnate ai miei Plotoni Mitraglieri, ecco piombarmi addosso, trafelato e sconvolto, il Tenente cui avevo affidato la difesa ad oltranza della posizione chiave dello schieramento, seguito da tutto il plotone. Alla mia concitata richiesta di spiegazioni della sua violazione di consegna e di palese comportamento codardo di fronte al nemico ed agli uomini da lui comandati, non seppe dirmi altro che: “Fai quello che vuoi, sono un vigliacco”. Le prime ombre calanti sul bosco, il contatto sempre più serrato del nemico che usava molte traccianti, gli avevano fatto saltare i nervi ed incapace di autocontrollo, era scappato tirandosi dietro tutto il reparto. Il nemico se ne era reso conto e stava infiltrandosi, seppur cautamente, nel varco creatosi, dovetti quindi dare subito ordine agli altri due plotoni di ripiegare sul comando di compagnia, edificio molto grande che si sarebbe prestato ad una temporanea difesa prima del buio. Venute a mancare le basi di fuoco che proteggevano la rotabile l’avversario poté avanzare ed arrivare a ridosso dello spiazzo ove erano situati i cannoni da 47/32. Essi, nell’impiego in combattimento, erano più ingombranti che utili privi, com’erano, di congegni di puntamento e con un’esigua dotazione di colpi ma il nemico non poteva saperlo e costituivano quindi per lui un’ambita e ghiotta preda. Si accese intorno ad essi una vera mischia, con alterne vicende, alla fine i serventi riuscirono a sganciarsi con un cannone, lasciando l’altro sul posto, dopo avergli tolto l’otturatore per renderlo inservibile, poiché l’intensità del fuoco avversario aveva creato una barriera insormontabile ad ogni tentativo di recupero. Tornando all’episodio di codardia di quel mio Ufficiale sopra descritto e di cui non voglio dire il nome perché era un mio compagno d’Accademia e quindi a me legato da particolari vincoli di natura idealista e sentimentale, provai grande imbarazzo ed un vero conflitto interiore quando successivamente dovetti riferire sulla condotta del combattimento, secondo gli ordini impartiti e conseguentemente sul suo operato: tuttavia non ebbi la crudeltà necessaria per denunciarlo poiché sapevo che l’avrei condannato a morte. Preferii chiederne l’allontanamento immediato dal Battaglione e nulla ho più saputo di lui. Ordinatamente, le singole Squadre di ciascun Reparto lasciarono le postazioni, fino ad allora valorosamente difese e, senza farlo trapelare al nemico, raggiunsero il punto di raccolta stabilito all’uscita sud del paese. Di qui, distaccata una pattuglia per intercettare il carro delle munizioni e scortarlo alla base di partenza, il Battaglione in formazione di marcia con misure di sicurezza rientrò a Gargaro. Prima della partenza la salme recuperate del Comandante Carallo e del Secondo Capo Gavrioglio vennero affidate al prete del paese con la minaccia di passarlo per le armi qualora, al nostro ritorno, non ce l’avesse fatte ritrovare. Il Comandante della Divisione, mentre percorreva la strada che da Gargaro porta a Chiapovano e accompagnato dal suo Capo di S.M. e da un Ufficiale tedesco di collegamento su di una autovettura scoperta, era stato ucciso in un’imboscata attribuita ad elementi partigiani. Più avanti spiegherò l’inattendibilità della versione ufficiale. Il combattimento, sostenuto egregiamente a Chiapovano, deve essere considerato il banco di prova del Battaglione. Sebbene costituito in gran parte da complementi, tutti al di sotto dei vent’anni ed alla loro prima esperienza bellica, diede prova di grande saldezza disciplinare ed autocontrollo emotivo, come se i suoi componenti fossero tutti veterani di guerra: merito loro ma soprattutto dei loro istruttori e comandanti. E quello che più conta le nostre perdite, a fronte di quelle avversarie, furono irrisorie: un loro disertore ebbe a dirmi che avevano avuto centinaia tra morti e feriti (settecento circa, ricordati ancor oggi dalle lapidi affisse nel paese dalle Autorità Jugoslave). Questo conferma la validità della mia teoria “più sudore, meno sangue” poco gradita, all’inizio, dai Marò ma successivamente compresa ed accettata. Ed evidenzia che in quel genere di guerra sarebbe stato atto suicida asserragliarsi nell’abitato, perché avrebbe significato l’accerchiamento ed il totale annientamento, come poi accadde al Battaglione “Fulmine” a Tarnova.
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